Noi che siamo passati dalla Libia. Una recensione

Il titolo

Mari D’Agostino fa parte di quei linguisti che amano contaminarsi con la realtà in cui sono immersi, come voleva il suo maestro Tullio de Mauro, che diceva (come ricorda lei stessa in un suo articolo sugli analfabeti di ieri e di oggi): “Ho sempre cercato di non allevare linguisti puri, ma linguisti contaminati, corrotti dall’impegno educativo, nella scuola e nella società”. E la realtà, a Palermo, è anche quella degli sbarchi dei tantissimi ragazzi che arrivano dall’Africa attraverso la Libia e il Mediterraneo. Molti di loro hanno la fortuna di passare direttamente dai barconi all’Università grazie alla Scuola di italiano per stranieri ItaStra, della quale abbiamo già parlato nel nostro blog.

Nel suo libro Noi che siamo passati dalla Libia. Giovani in viaggio fra alfabeti e multilinguismo (Il Mulino, 2021) Mari D’Agostino ci propone un profilo a tutto tondo di questi nuovi migranti, che si nutre sia di dati e letture, sia – ed è ciò che fa veramente la differenza – di una conoscenza profonda e di prima mano dei ragazzi, incontrati e ascoltati nel chiostro di Sant’Antonino, sede della scuola, ma anche nei campi da calcio o al bar davanti a un caffè. Nelle loro storie, ricavate dalle interviste orali, in cui parole arabe, francesi, inglesi o dei diversi idiomi africani si mischiano ai sicilianismi, o desunte dalle autobiografie linguistiche, sono proprio Abou, Ibrahim, Mohamed … a raccontarsi, sollecitati anche da un percorso didattico che punta a far comprendere loro l’importanza della narrazione per rafforzare la propria identità, attraverso laboratori e teatro. Identità che emerge con prepotenza in quel noi collettivo del titolo, di chi ha vissuto l’esperienza del viaggio e soprattutto del traumatico passaggio per la Libia.

Il metodo della narrazione

La ricerca è dunque prima di tutto qualitativa, poi anche quantitativa: è condotta su un campione di circa 4000 ragazzi, passati per ItaStra dal 2013 ad oggi, una parte dei quali è stata sottoposta, dal 2017, a questionari sociolinguistici e test di alfabetizzazione, per poi entrare nei corsi e nei laboratori della scuola. I giovani appartengono in grande maggioranza ai Paesi dell’Africa Subsahariana (Gambia, Nigeria, Costa D’Avorio, Mali Senegal, Guinea Conakry, e in misura minore da Benin, Burkina, Camerun, Etiopia…), hanno meno di 30 anni; una buona parte di loro appartiene alla categoria giuridica dei Minori stranieri non accompagnati, essendo minorenni e arrivati senza un adulto di riferimento. Li caratterizzano da un lato un forte plurilinguismo (più del 50% di loro dichiara di parlare più di tre lingue, ma molti arrivano a parlarne otto o nove, tra le tantissime presenti nel Paese); dall’altro, la bassa o bassissima alfabetizzazione: oltre il 25% del campione è analfabeta e un altro 25% è scarsamente alfabetizzato, nonostante essi abbiano frequentato la scuola per più anni. Giovani maschi, plurilingui, che partono da soli, senza vincoli matrimoniali, verso paesi ignoti, dove non troveranno reti familiari ad accoglierli. Eppure, sono fortemente interconnessi attraverso Internet ed i social, che li aiutano nel viaggio. Le loro rotte sono lunghe e tortuose: possono durare da qualche mese a qualche anno.

Il multilinguismo, il plurilinguismo e scuola

Il capitolo 2, Spazi di partenza e diversità linguistica, è dedicato al multilinguismo africano e fornisce moltissimi dati sulle lingue, sui repertori e sul rapporto tra lingua e vernacoli. I ragazzi sono immersi sin dall’infanzia in diverse lingue: non solo quelle dei genitori, ma anche quelle dei vicini di casa, e soprattutto dei pari, che hanno un ruolo fondamentale (p. 49). I frequenti movimenti interni al paese africano (per viaggi, visite ai parenti lontani, squadre di calcio, inserimento nella scuola) aumentano di continuo il loro repertorio linguistico. Si tratta però di conoscenze limitate, “sufficienti a comprendere e a farsi comprendere dall’interlocutore” (pp. 50-51), non a un pieno possesso delle lingue. Si parla dunque di “multilinguismo ricettivo” (ibidem). I nostri concetti di lingua madre e di repertorio linguistico di un individuo non sembrano funzionare: le lingue madri possono essere più d’una e il repertorio di un singolo è in continuo movimento. Ad esemplificazione di ciò, nel capitolo 3, Mohammed, un 21enne gambiano scolarizzato, racconta il proprio repertorio plurilingue, dando particolare rilievo all’importanza che ha in Africa lo scherzare con le lingue (p. 65), anche come maniera di risolvere i conflitti:

Tutte le lingue sono mescolate. Capita che uno parla una lingua e uno risponde in un’altra. C’è una persona che parla 4 lingue ma capisce 6 lingue […] Tu mi parli in una lingua che io capisco, io non so rispondere in quella lingua ma in un’altra lingua, che tu capisci, e così che funziona […] In Gambia con le persone del mio villaggio le conosco e non ho problemi. Non ho paura per confrontarmi. Stando fuori ho più bisogno: devo parlare con una persona di un’altra lingua e ho bisogno di parlare, di capire e di sapere.

Questo atteggiamento di apertura verso i diversi idiomi è di grande aiuto nel viaggio, durante il quale il repertorio si amplia sempre di più e aiuta a sopravvivere in paesi duri come la Libia e ad apprendere − talvolta velocemente − l’italiano, una volta sbarcati in Sicilia.

Tuttavia, la capacità di parlare e capire tante lingue diverse si scontra con la difficoltà nello scrivere anche in una sola di esse. Il punto di debolezza di questi ragazzi è quello che in inglese viene definito literacy, ossia la padronanza del codice scritto (lettura e scrittura). Il termine in italiano è di difficile traduzione e sta a metà tra alfabetizzazione e scolarizzazione, parole strettamente interconnesse.

Particolarmente interessanti per gli insegnanti sono allora i capitoli 4, Multigrafismo, scolarizzazione, literacies, e 5, Scuole, fra esperienze e racconti, che illustrano dettagliatamente la scolarizzazione nell’Africa occidentale, dove vi è un doppio sistema di istruzione. Da un lato, vi è il sistema educativo informale arabo islamico delle scuole coraniche classiche, senza controllo da parte dello Stato, dove i ragazzi seguono − tutti nella stessa stanza − un maestro che però li istruisce singolarmente attraverso la ripetizione e memorizzazione delle sure del Corano. Talvolta, apprendono anche a scrivere e leggere i versetti, ma senza che vi sia attenzione al rapporto tra forma e significato: al centro vi è la forma, ossia la trascrizione delle lettere e delle parole, che non vengono associate al loro significato; si mira solo alla comprensione del senso globale. Si usa inoltre la lingua locale per l’oralità e l’arabo classico (ignoto agli studenti) per la scrittura.

Accanto o in alternativa al primo, vi è poi il sistema educativo formale, non arabo islamico, in scuole pubbliche o private, controllate dallo Stato, che seguono il modello occidentale e mantengono in genere la lingua coloniale (inglese o francese). Anche in questo caso, però, il livello della scolarizzazione resta basso per vari motivi, primo tra tutti il fatto che l’istruzione viene impartita non nella lingua materna, come sarebbe corretto (Unesco 1953, Cummins 2009), ma in una L2 poco nota, il che rallenta e a volte blocca del tutto la scolarizzazione. Sebbene l’insegnante possa utilizzare in classe una lingua africana (ad es. il mandinka), si legge e scrive solamente in inglese/francese, lingue che solo una parte minima della popolazione (10-15%) parla in modo fluente.

Il Viaggio e la Libia

I capitoli 6-8 descrivono poi le caratteristiche dei giovani migranti provenienti dall’Africa centro occidentale, evidenziando come essi abbiano profili diversi tra loro per quanto riguarda storie personali, aspirazioni, capacità: c’è chi parte da bambino, per scappare alla violenza (magari domestica), senza avere una meta precisa, e si sposta trascinato dagli eventi o dall’incontro di nuovi amici, e chi invece parte per il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, programmando meticolosamente il viaggio in Europa. Per tutti, comunque, è forte il nesso tra spostamento territoriale e linguistico e il Viaggio serve a riposizionare la propria identità. Per tutti, inoltre, si rivela fatale il passaggio per la Libia, con la sua violenza, le prigioni, e poi l’attraversamento del mare, con i suoi morti.

Il vocabolario delle migrazioni

Gli ultimi capitoli (9-11) esplorano il vocabolario linguistico delle migrazioni, soffermandosi ad esempio sulla lingua delle canzoni dei giovani, che, pur parlando di back way, “via secondaria” (quella illegale rispetto a quella ufficiale, che agli africani pare ormai preclusa) e dei suoi pericoli, esortano a seguirla, come hanno fatto tanti amici, che assurgono a simbolo del migrante riuscito. È anche la lingua dei racconti orali, in cui le stesse parole tornano con molteplicità di trascrizioni e pronunce, ma anche di sfumature, diverse: il coxeur, ad esempio, è nello stesso tempo “il traffichino e il salvatore” (p. 188). Di contro alla lingua dei migranti, vi è la lingua dei documenti ufficiali, che vorrebbero distinguere con precisione le differenti tipologie di migranti e di trafficanti, ma occultano una realtà molto più complessa, tutti tesi a giustificare la distinzione tra chi avrebbe il diritto di migrare (il rifugiato) e chi no (il migrante economico), distinzione che – secondo l’autrice – diventa una vera e propria arma politica.

L’etica della ricerca

Chiude il libro il capitolo 12 dedicato all’etica della ricerca: in opposizione alle tante ricerche astratte con metodi standardizzati su questi temi, D’Agostino ha scelto invece il modello “dell’artigianato della ricerca antropologica e dialettologica del secolo scorso” (p. 215-16), in cui è fondamentale il contatto tra il ricercatore e i suoi informatori. Che non sono oggetti da cui estrarre dati di cui verificare la credibilità, ma “soggetti che co-determinano (..) il processo di costruzione del dato e le cui esigenze e necessità vengono assai prima della ricerca stessa” (p. 224). Il vero obiettivo della ricerca di D’Agostino e del gruppo di ItaStra è semplicemente quello di migliorare i processi di inclusione, conoscendo in profondità i protagonisti della storia di oggi.
Insomma, è un piccolo libro, che però amplia di molto le nostre conoscenze, e da cui trapela tutta la passione civile dell’autrice e della scuola siciliana.

Per approfondire guarda l’intervista a Mari D’Agostino disponibile al link:
https://www.youtube.com/watch?v=XVLbfyGAai0