Di seconde generazioni si parla spesso, nel bene e nel male: quando escono i dati Invalsi e le seconde generazioni appaiono ottenere punteggi a metà tra i nativi e le prime generazioni (ossia i ragazzi nati all’estero e di recente migrazione), o quando uno di loro, come Mahmood o Ghali, si presenta a Sanremo e porta nelle canzoni tracce della propria storia, o ancora quando una campionessa sportiva come Paola Egonu pur ottenendo per l’Italia risultati spettacolari viene offesa o trattata da straniera. Ma chi sono veramente queste ragazze e questi ragazzi? Partiamo da una precisazione linguistica: in Italia, si intende di seconda generazione “una persona nata e residente in un paese in cui almeno uno dei suoi genitori ha fatto ingresso come migrante” (European Migration Network), quindi coloro che sono nati in Italia da genitori stranieri, ma poi, per estensione, anche chi è arrivato in età prescolare.
Diversi saggi usciti nel primo ventennio del secolo (a partire dal notissimo testo di Ambrosini e Molina del 2004, per continuare con Della Zuanna, Farina, Strozza 2009, Caneva 2011, Orioles 2014, Ambrosini, Pozzi 2018), ne mettono in risalto alcune caratteristiche, evidenziando in primo luogo le peculiarità della situazione italiana rispetto ad altri Paesi Europei e gli Stati Uniti per i migranti. Intanto, la forte eterogeneità delle provenienze: in Italia la presenza di migranti di molti diversi Paesi provoca una certa polverizzazione, una frammentazione, che rende più difficile la nascita di istanze unitarie. Mancano inoltre, con poche eccezioni in alcune città, veri e propri iper-ghetti urbani come ad esempio le banlieue francesi. La questione islamica non presenta, in genere, le asperità che ha altrove: molti studi (specialmente della scuola padovana: Enzo Pace, Stefano Allievi, Renzo Guolo, Annalisa Frisina, ma non solo) parlano di un islam prevalentemente moderato e dialogante, altri parlano di integrazione silenziosa degli islamici (Paci, 2004).
Inoltre, la mancanza della scelta di un preciso paradigma culturale nell’accoglienza dei migranti, come possono essere quello assimilazionista statunitense e francese, o quello del pluralismo della Gran Bretagna, porta ad una maggiore apertura e libertà nei modelli di inserimento. D’altro canto, però, una legislazione rigidissima nel concedere il permesso di cittadinanza (Ius sanguinis) e l’esasperante attesa di una legge migliorativa incidono pesantemente sul sentimento di appartenenza delle G2 all’Italia e sulla percezione della loro accettazione da parte della società e sul loro inserimento (Caneva 2011: 60), tanto che esiste una rete G2 italiana che si riconosce proprio attorno a due punti cardine: la lotta per ottenere la cittadinanza e la definizione di un’identità che nasce dall’incontro di più culture.
https://www.secondegenerazioni.it/
la rete G2 – seconde generazioni nasce nel 2005. È un’organizzazione nazionale apartitica fondata da figli di immigrati e rifugiati nati e/o cresciuti in italia. Chi fa parte della rete G2 si autodefinisce come “figlio di immigrato” e non come “immigrato”: i nati in Italia non hanno compiuto alcuna migrazione; chi è nato all’estero, ma cresciuto in Italia, non è emigrato volontariamente, ma è stato portato qui da genitori o altri parenti. Oggi rete g2 è un network di “cittadini del mondo”, originari di Asia, Africa, Europa e America Latina, che lavorano insieme su due punti fondamentali: i diritti negati alle seconde generazioni senza cittadinanza italiana e l’identità come incontro di più culture.
Come stanno crescendo dunque i ragazzi di seconda generazione? Mancano studi complessivi, molto difficili da realizzare in una realtà tanto parcellizzata, ma diverse indagini condotte localmente, in particolare nel nord Italia (Della Zuanna et alii 2009 in Veneto, Caneva 2011 a Milano, Orioles 2014 a Udine) sembrano arrivare a risultati simili, evidenziando come i giovani di origine straniera non rappresentino un universo compatto e omogeneo, ma piuttosto un gruppo variamente articolato al suo interno e che, allo stesso tempo, presenta molte similarità con i giovani italiani. Le identità di questi ragazzi non sono statiche e ben definite, ma estremamente complesse e transitorie, e le differenze fanno riferimento a molteplici aspetti, di tipo culturale, ma anche emozionale e sentimentale.
Non mancano In Italia casi di mimetismo, ossia di ragazzi di background migratorio che si sentono italiani al 100% e rinunciano alla loro cultura di origine, rifiutando valori e lingue familiari e puntando a un’acquisizione perfetta dell’italiano e a un’integrazione totale; come non mancano nemmeno ragazzi dalla cosiddetta “identità reattiva”, che, cioè, rifiutano ogni tipo di integrazione, a partire dall’impegno scolastico, preferendo la via della separazione e frequentano solo gruppi di connazionali. Nel nostro Paese, tuttavia, sembra vi sia una netta prevalenza di giovani con identità aperte, identità con il trattino (in inglese hyphened: italo-qualcosa), o doppia etnicità (Caneva 2011, pp. 84-85). Altri studiosi parlano della nascita di una cultura terza o in–between, di un bricolage culturale: ragazzi perfettamente bilingui, che mantengono buoni rapporti con entrambe le culture, e che si muovono agevolmente tra l’una e l’altra, miscelandone e ibridandone le componenti. Il libro di Caneva si intitola appunto Mix generation.
Certamente, però, essere un adolescente sospeso tra due culture e dover cercare il proprio posto nel mondo presenta un buona dose di difficoltà: alle normali difficoltà tipiche dell’adolescenza (con le complicanze dell’era covid e postcovid) si sommano, infatti, quelle peculiari di essere figli di migranti, dovute sia a fattori strutturali (legati alle discriminazioni, al razzismo, alla legislazione, e poi al mercato del lavoro), sia a fattori personali (ossia fattori socioculturali, la famiglia di appartenenza, col suo capitale culturale ed economico, il gruppo etnico, ecc.…). E la scuola, in tutto questo, può assumere molta rilevanza, favorendo l’incontro, le relazioni, l’autostima, o – al contrario – sommando difficoltà a difficoltà se non riesce a intercettare questi giovani.
Camilla Borgna, autrice di Studiare da straniero. Immigrazione e diseguaglianze nei sistemi scolastici europei (Il Mulino, 2021), saggio che allarga la prospettiva sulla scuola europea, sostiene:
“L’istruzione dovrebbe costituire la strada maestra per l’integrazione e la mobilità sociale dei giovani stranieri. Ma è noto che essa è un’arma a doppio taglio nel processo di riproduzione intergenerazionale delle diseguaglianze. In particolare, per quanto riguarda gli stranieri, un titolo di studio elevato non protegge da penalizzazioni e vere e proprie discriminazioni rispetto alla popolazione autoctona; inoltre, la scuola può operare da ascensore sociale solo nella misura in cui tutti gli studenti godano delle stesse opportunità educative. Come vedremo nel dettaglio nel corso del libro […] esistono importanti ostacoli all’eguaglianza di opportunità per gli studenti di origine immigrata nei sistemi scolastici europei” (Borgna 2021, introduzione)
Al di là dei saggi socio e psico-logici, pur utilissimi, ci pare però che per conoscere i giovani di seconda generazione un’ottima strada possa essere quella di ascoltarli, dando la parola, in particolare, a quanti hanno deciso di rompere il silenzio e raccontare la loro storia. Ci riferiamo a romanzi, narrazioni autobiografiche di G2 che stanno diventando un filone a sé, a partire dai primi tentativi di scrittori ormai pienamente entrati nel panorama letterario come Igiaba Scego, con un titolo significativo come La mia casa è dove sono. E dopo di lei, Shi Yang Shi (Cina), Espérance Hakuzwimana (Ruanda), Saif ur Rehman Raja (Pakistan) e tanti altri. Nei prossimi mesi dunque, pubblicheremo in questa sezione del blog una serie di recensioni di romanzi e racconti autobiografici di giovani autori di origine straniera che abbiamo trovato particolarmente significativi, evidenziando in particolare il rapporto che hanno avuto con la scuola italiana. Crediamo infatti che questi libri possano aiutare senz’altro gli insegnanti, e talvolta anche qualche studente di background migratorio, a capire meglio le seconde generazioni, al di là degli stereotipi. Naturalmente, è di fondamentale importanza che un insegnante, prima di leggere i romanzi in classe o di consigliarli a qualche studente, conosca bene sia i loro contenuti che la peculiare situazione della propria classe o del singolo alunno, perché il rispecchiamento in una storia che ricorda troppo dolorosamente la propria non sempre ha esiti positivi.