Modesta proposta per preservare la gioventù dai prodotti della poesia

Pubblichiamo questo contributo per gentile concessione dell’autore e della rivista Gli asini.

A distanza di oltre quarant’anni la Modesta proposta di Enzensberger continua a mordere, e si può leggere e gustare come se fosse fresca di stampa. Ma può essere interessante collocarla nel suo tempo, in riferimento alla grande eco che ebbe in Italia, all’interno di un vivace dibattito sul senso e sulle modalità dell’insegnamento letterario che si sviluppò fra la fine degli anni Settanta e i primi anni novanta del secolo scorso: un dibattito oggi dimenticato, i cui esiti possono suggerirci qualche riflessione sulla situazione attuale dell’educazione letteraria nella scuola. Pubblicato nel 1977 sulla rivista “Tintenfisch”, il saggio di Enzensberger fu tradotto nell’anno successivo da Alfonso Berardinelli per “Quaderni Piacentini”, e ripreso e commentato dallo stesso Berardinelli e da Cesare Cases in due numeri successivi della rivista. Il topos dello sfortunato incontro fra la poesia, la scuola e “la figlia del macellaio” ebbe grande fortuna, e rimbalzò da “Quaderni piacentini” ad altre riviste e quotidiani, dando il via all’ampio e animato dibattito di cui sopra.

Sul filo del paradosso – evocato fin dalla citazione swiftiana del titolo – Enzensberger disegna gli ingranaggi di un meccanismo perverso: dalla complicità dei docenti universitari di germanistica e dei burocrati della pubblica istruzione scaturiscono macchinosi “strumenti di tortura” che la classe subalterna degli insegnanti è obbligata ad applicare ai testi poetici e agli studenti, producendo esiti nefasti; su questo sfondo l’unica via di salvezza per la poesia e per le nuove generazioni è di non frequentarsi, o di frequentarsi, se capita, il più lontano possibile dalla scuola. Alfonso Berardinelli (Chirurgia estetica, “Quaderni piacentini”, 66-67, 1978) ne prende lo spunto per mettere in luce il nesso fra la crescente superfluità della letteratura nella società e la sua presenza ormai “catacombale” nel sistema scolastico italiano, dove la diffusione abnorme delle metodologie specialistiche finisce per soffocare ed inibire la concreta esperienza della lettura, “l’atto elementare con cui qualcuno si avvicina a qualcosa di scritto, in una concreta situazione, con tutte le sue spurie motivazioni sociologiche e sociali”. Da parte sua Cesare Cases (Il poeta e la figlia del macellaio, “Quaderni piacentini”, 69, 1978) rilegge il saggio di Enzensberger temperandone il piglio paradossale con alcuni aggiustamenti: l’identificazione della “logotecnocrazia” con uno specifico orientamento degli studi letterari (lo strutturalismo e le sue derivazioni); la difesa del diritto delle “figlie dei macellai” a leggere poesie nell’unico luogo dove possono ragionevolmente incontrarle, cioè a scuola; un atteggiamento più possibilista sul margine d’azione e di responsabilità degli insegnanti, a cui è dedicato, nella parte finale dell’articolo, un repertorio di assennati e realistici Consigli a un giovane insegnante che non hanno perso di attualità (“Gli asini” li hanno riproposti nel numero del marzo-aprile 2016 dedicato a Giulio Regeni).

Gli interventi di Enzensberger, Berarardinelli e Cases suscitarono le repliche di esponenti dell’allora egemone critica struttural-semiotica: da Cesare Segre (Cases, la figlia del macellaio e la logotecnocrazia, “Alfabeta”, 1, 1979) a Pier Marco Bertinetto e Carlo Ossola (Tristi tropi: la figlia del macellaio, in Id, Insegnare stanca. Esercizi e proposte per l’insegnamento dell’italiano, Il Mulino, 1982), che sostennero le ragioni di un approccio “scientifico” al testo letterario come argine a un’idea anarchica e impressionistica della lettura e strumento per consentire agli studenti di decifrare razionalmente i “codici” e i “sistemi di modellizzazione” della cultura. Si definirono così le coordinate di partenza di un dibattito che avrebbe coinvolto negli anni successivi letterati, pedagogisti, insegnanti, autori di libri scolastici, e sarebbe stato segnato dall’uscita numerosi volumi dedicati al senso e alle modalità dell’insegnamento letterario. La contrapposizione fra lettura “anarchica” e analisi specialistica del testo si complicò ben presto, incrociando il susseguirsi delle ondate culturali, fra marxismo, strutturalismo, ermeneutica.

Un’idea forte, che sembrava aprire nuove prospettive alla didattica della letteratura fu quella, avanzata sul finire degli anni ottanta, della classe come “comunità interpretativa” o “ermeneutica” (G. Armellini, Come e perché insegnare letteratura, Zanichelli, 1987; R. Luperini, Insegnare la letteratura, Manni, 2000), centrata su un dialogo aperto fra insegnanti e studenti intorno ai possibili significati di un testo per i concreti esseri umani implicati nell’atto della lettura, in cui la scelta dei contenuti e la quantità e la qualità di sapere specialistico messo di volta in volta in campo si sarebbero dovute misurare con gli imprevedibili e mutevoli orizzonti d’attesa dei ragazzi e delle ragazze, tenendo il debito conto della loro estraneità ai canoni del sapere codificato. Si superava così l’ossessione per l’”interpretazione giusta” deprecata da Enzensberger, con i suoi corollari dogmatici e autoritari, e si valorizzava il carattere bidirezionale del rapporto fra insegnanti e studenti. Una simile prospettiva avrebbe richiesto una radicale ridefinizione dei contenuti dei programmi ministeriali e dei libri di testo, il riconoscimento dell’autonomo valore conoscitivo dell’esperienza didattica, e un conseguente ripensamento della figura dell’insegnante, non più traghettatore degli studenti verso un sapere mutuato dall’accademia e dalle prescrizioni burocratiche, ma soggetto responsabile di una didattica dialogica e aperta all’imprevisto.

Inutile dire che questo rivolgimento non si è realizzato. Negli ultimi decenni i fervori teorici sulla natura e sul senso della letteratura si sono placati, la burocrazia ministeriale, di pari passo con la diffusione dell’ideologia delle “competenze” e la conseguente ipertrofia della valutazione, si è fatta più invadente, e l’insegnamento letterario sembra vivacchiare rimasticando i vecchi modelli: “analisi del testo” fino al biennio delle superiori; “storia della letteratura” negli ultimi tre anni. L’impressione è che la vetusta didattica del “leggi e ripeti”, ad onta dell’apparente rinnovamento metodologico, tenda ancora a farla da padrona. Ecco perché il saggio di Enzensberger a distanza di anni ci parla ancora della scuola di oggi. Ma personalmente condivido la simpatia di Cases per le “figlie dei macellai”, e la convinzione che un loro incontro con la poesia a scuola possa nonostante tutto essere fecondo. A patto che incrocino insegnanti disposti a ragionare appassionatamente con i propri studenti su cosa diventa un’opera letteraria quando entra in un’aula scolastica.