Qualche domanda sulla scrittura e … una prova di immaginazione

Che cosa far scrivere ai bambini, ai giovani studenti nei primi anni di scuola? Come motivarli alla scrittura? Sono domande che ogni insegnante di ogni ordine di scuola si pone da sempre. Ieri l’alternativa era: far scrivere in libertà intorno a qualsiasi cosa; oggi la prospettiva mi pare modificata, ma alla fine il problema resta un gran problema, sempre aperto e sempre difficile.

Vien da dire che in fondo, se mai fine ci può essere, c’è lo scrivere come luogo della solitudine, del trovarsi soli con sé stessi per conoscersi, per conoscere le cose del mondo, per giocare con le parole, per costruire mondi alternativi. In una parola, lo scrivere per sé come il momento più alto di questa attività linguistica. È un processo lungo, aperto e sempre nuovo per ciascuno di noi, alle cui spalle c’è esercizio, disciplina, esperienza e tante letture. Ed è un percorso che, a ben guardare, interessa tutti, almeno nelle intenzioni e nei desideri. Se questa è la fine del processo e lo scopo di una delle attività più gratificanti e necessarie per l’uomo, da qui ritengo che si debba partire. In altre parole, quel che c’è alla fine in nuce si deve ritrovare anche al principio.

E quindi, da dove cominciare? Dal far prendere gusto ai bambini a scrivere. È vero che prima di tutto c’è la strumentalità di questa abilità che richiede appunto disciplina, esercizio, fatica. Ma penso che anche questo momento dello scrivere non debba necessariamente essere vissuto come costrizione, come pegno da pagare per arrivare a essere liberi di parlare con noi stessi. Vien da dire che, al tempo dei social, anche per tanti bambini che ancora non sono piccoli studenti, la scrittura sia già cominciata sui piccoli schermi dei telefonini o sulle tastiere dei tablet.

Far parlare per far scrivere

Prima però ci deve essere il gusto e il piacere della parola, che crea e che ci fa sentire creatori. E, soprattutto, la consapevolezza che la parola è lo strumento più efficace per comunicare. Questo piacere nasce naturalmente in famiglia e a scuola dalla parola parlata, prima tappa per assaporare il potere e la potenza della lingua.  Con la parola parlata comunichiamo e stringiamo amicizie, e le consolidiamo; con la parola parlata riusciamo a conoscere e a esprimere noi stessi; con la parola parlata nominiamo le cose del mondo e le conosciamo. Il piacere per la parola scritta parte da qui. Certo, con le parole esprimiamo desideri e volontà; e con le parole nel silenzio di noi stessi costruiamo mondi diversi, ci facciamo padroni, con la fantasia e l’immaginazione, di quel che vorremmo. E quindi il far parlare è la prima condizione per far scrivere: qui il bambino in famiglia e il giovane studente a scuola deve sentire tutta la potenzialità e il potere creativo della parola. E questo dipende in primo luogo da noi, insegnanti e genitori, modelli più o meno consapevoli di lingua.
A queste condizioni anche la fatica dell’apprendere la scrittura strumentale si fa più leggera; la fatica porta con sé una conquista, l’esercizio fa capire che ne vale la pena, la disciplina avvia a cercare le parole per dire quel che vogliamo. La corrispondenza tra parola e desiderio è il premio ai nostri sforzi e alle nostre fatiche.

Che cosa succede oggi ai nostri studenti? 

Oggi mi pare ancora più urgente insegnare a scuola a scrivere agli studenti, piccoli e grandi che siano: telefonini, tablet, tastiere sono ormai strumenti d’uso corrente. Hanno il pregio di spingere tutti a comunicare nel modo più efficace e motivato. La nuova condizione è che non si parte da zero. ‘Nativo digitale’ indica in primo luogo chi riconosce lettere e parole, segni interpuntivi, insieme a segni, icone e simboli che integrano il testo scritto; naturalmente lo strumento bisogna saper tenerlo in mano.

Se parte della fatica a riconoscere lettere e sillabe, ma anche intere parole; se la correttezza ortografica può essere aiutata dall’aiuto automatico degli strumenti digitali; non è detto che la parte più impegnativa del corretto ed efficace comunicare, e che il più dello scrivere in senso stretto, sia risolta o agevolata. In primo piano resta da far capire il valore della parola e l’efficacia del suo uso a qualsiasi fine, sia quello di comunicare sia quello di conoscere sé e il mondo.

Alcuni giorni fa ho chiamato una collega della scuola primaria di alcuni anni fa e l’ho invitata a farmi il punto della situazione circa la scrittura specie nei primi anni di scuola. Mi ha raccontato dell’impoverimento di questa abilità sia dal punto di vista della ‘strumentalità fine’, del senso della direzionalità dei bambini, delle loro fragili fatiche, dei tanti cambiamenti a livello cognitivo intervenuti con la digitalizzazione e lo tsunami dei social. Mi ha anche detto che combinando icone con scrittura, facendo leva sulla sensibilità e sulla emotività (sempre e più che mai presenti) dei giovani studenti, toccandoli con parole poetiche e con la poesia tout court, le porte della testa e dei cuori dei bambini sono sempre aperte.  

Per cominciare ad aprirle e per tenerle aperte, le strade maestre rimangono sostanzialmente due: quella della parola parlata da chi deve rappresentare il modello di lingua, e quella, sempre ‘esterna’, costituita dalla parola scritta da altri.

Per quel che riguarda la parola parlata è facile per ogni insegnante sapere che cosa fare. Quanto invece alla parola scritta il punto di partenza è sempre dato dalla parola degli altri, dalla parola scritta da altri. Da qui attività ed esercizi a partire da testi, brevi o lunghi, semplici o complessi in relazione all’età e al livello di sviluppo raggiunto.

Proverò in una seconda puntata a fare qualche proposta per ‘imparare’ la scrittura ai più giovani studenti. Per il momento penso alla parola piene con un pensiero di Italo Svevo.

La parola capita nella sua pienezza. Una lunga strada …

Tutto sta nel far prendere piacere a sentire le parole nella loro pienezza fatta di senso, di suono, di ‘disegno’ vero e proprio. Nel far sentire che provoca, che tocca la sensibilità ed entra nell’emotività. Negli anni ci è stato detto che ci sono parole che più di altre arrivano a toccare ognuno di noi, parole che suonano, parole che evocano, parole che non passano come l’acqua, ma che arrivano a sfiorare i punti più sensibili del nostro sentire.
Non è detto che tutto questo non possa non passare per uno schermo, per una tastiera, per la superficie di un telefonino. Scrivere un messaggio che ci costringe a pensare, a immaginare l’effetto che può produrre su chi lo riceve, non è poi così lunare. E non è detto che tutto il piacere che altri prima di noi abbiano provato non possa essere anche nostro e dei nostri studenti di riflesso, rinnovato in tempi di social.

Qualche testo – di scrittori ‘esperti’ – può aiutare tutti e ciascuno a pensare a che cosa può essere lo scrivere buono, nostro e dei nostri studenti.    

… Io credo, sinceramente credo, che non c’è miglior via per arrivare a scrivere sul serio che di scribacchiare giornalmente. Si deve tentar di portare a galla dall’imo (dal profondo) del proprio essere, ogni giorno un suono, un accento, un residuo fossile o vegetale di qualche cosa che non sia il o non sia puro pensiero, che sia o non sia sentimento, ma bizzarria, rimpianto, un dolore, qualche cosa di sincero, anatomizzato, e tutto e non di più. Altrimenti facilmente si cade – il giorno in cui si crede d’esser autorizzati di prender la penna – in luoghi comuni o si travia quel luogo proprio che fu a sufficienza disaminato. Insomma fuori della penna non c’è salvezza.  

È un pensiero di Italo Svevo, tratto dal suo Diario.